Massimiliano Boni, «In questi tempi di fervore e di gloria». Vita di Gaetano Azzariti.

Gli storici che si occupano della politica razzista del fascismo conoscono da tempo la figura di Gaetano Azzariti (1881-1961) e la sua incredibile carriera prima nell’Italia liberale, poi in quella fascista e infine repubblicana, senza soluzione di continuità, malgrado il diretto coinvolgimento nell’attuazione di quella che è ormai considerata la peggiore manifestazione del regime.

Ma non c’era, fino ad ora, una ricostruzione completa del personaggio, dalla storia familiare alle vicende professionali, che desse conto con notevole dovizia di particolari, non solo di quanto già si sapeva, ma anche del quadro generale di coinvolgimento nell’elaborazione di tutte le leggi fasciste, incluso il Codice civile e quasi sicuramente le stesse leggi antiebraiche. Era, infatti, lo storico capo dell’Ufficio legislativo del Ministero di Grazia e giustizia, un tecnico di altissimo rango, con una straordinaria capacità (riconosciuta da tutti, a partire dai governi dell’Italia liberale fino a Togliatti) di tradurre in forma di normativa coerente e ben strutturata le indicazioni di chi era al Governo. A prescindere dall’ideologia, si direbbe, considerata una variabile indifferente per chi svolgeva quello che veniva avvertito come un ruolo “neutrale”, di altissimo funzionario che obbedisce agli ordini con zelo da tutti encomiato. Eppure, nella ricostruzione documentatissima di Massimiliano Boni si scorge qualcosa di più, in particolare attraverso gli interventi pubblici in cui questo zelo burocratico si trasforma in adesione piena, all’insegna della retorica di regime, come quello da cui origina il titolo del libro: «Ardita e presente al tempo stesso [la codificazione] riuscirà pure meno appariscente di tante altre che vediamo sorgere con orgoglio di italiani in questi tempi di fervore e di gloria, ma non meno solida e quadrata e non meno idonea ad attestare… la libertà dell’Italia fascista guidata dal suo Duce» (p.328-329), e quello del 1939: «Finora si insegnava che la capacità [giuridica] è uguale per tutti e che né l’età, né il sesso, né la religione, né la razza sono rilevanti nel campo del diritto privato. L’insegnamento deve essere rettificato. Oggi l’appartenenza a determinate razze è causa di limitazioni della capacità giuridica» (p.326).

Quanto al più noto degli incarichi di Azzariti, ossia la presidenza del cosiddetto Tribunale della razza (in realtà la commissione incaricata di dichiarare, in casi eccezionali, «la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze dello stato civile»), Boni ne ricostruisce con estrema accuratezza le vicende. Di cosa si trattava? Di definire il soggetto che ne faceva richiesta come “ariano” e non “di razza ebraica” in quanto figlio adulterino di una madre possibilmente ariana e di un altro ariano con cui la stessa aveva tradito il coniuge ebreo. Di fatto, le pochissime istanze visionate dal Tribunale (ne risultano 163, di cui 143 esaminate e 104 accolte) furono oggetto, per unanimi testimonianze, si direbbe oggi bipartisan, da Piero Calamandrei ai gerarchi fascisti, di uno scandaloso mercimonio che traeva origine negli uffici della Demorazza. Le pratiche del Tribunale riguardarono pochissime persone, spesso già fuori dall’ebraismo per conversione, dotate di mezzi per pagare e talvolta di appoggi. La maggior parte dei perseguitati ne rimase fuori. E non sarà per caso che, in una generale lacunosità delle fonti sul razzismo fascista, sono del tutto scomparsi i fascicoli del Tribunale, di cui restano poche tracce nell’archivio (anch’esso incompleto) della Direzione generale Demografia e razza (Demorazza) del Ministero dell’Interno. Al termine della guerra, i componenti del Tribunale furono oggetto di procedimento di epurazione ma il Tribunale della razza non fu considerato una aggravante, anzi, passò tranquillamente la versione dello stesso Azzariti, ripetuta quasi con le stesse parole dagli altri componenti: una commissione meramente tecnica che aiutava gli ebrei. E una lettera, paradossalmente scritta da uno di questi componenti, Antonio Manca, nella sua veste di Direttore generale del personale del Ministero di Grazia e giustizia, chiarisce ai commissari che la partecipazione al Tribunale non è motivo di epurazione. Eppure, la commissione suggerì che Azzariti, che ancora dirigeva l’Ufficio legislativo, fosse collocato a riposo. Una mano ancora non identificata firma un appunto: «Non lo ritengo opportuno. Roma 15.X.45». Si spiana così la strada per la luminosa carriera che lo porterà alla presidenza della Corte costituzionale dell’Italia nata dalla Resistenza, una Corte di cui fece parte anche Antonio Manca, mentre il segretario del Tribunale, Rodolfo Biancorosso sarà Direttore generale degli archivi.

Una storia italiana che ci interroga sul ruolo dei tecnici, sul dopoguerra e sui compromessi dell’Italia repubblicana e, non ultimo, sulla sorte di certi archivi. E agli archivisti «formidabili complici degli storici» è dedicato il volume.

Massimiliano Boni, «In questi tempi di fervore e di gloria». Vita di Gaetano Azzariti, magistrato senza toga, capo del Tribunale della razza, presidente della Corte costituzionale., Torino, Bollati Boringhieri, 2022, pp. 801.

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