Archivio: concetti e parole. 143 pagine complessive, che comprendono, iniziando dalla fine, un indice alfabetico, una postfazione di Ilaria Pescini, e, a pagina 126, sedici righe con incipit «Se sei […]» e l’ultima riga «Allora figlio mio sei un archivista. Ma puoi cambiare... ». Da pagina 19 a pagina 125 ci sono duecentoventi parole, che si susseguono in un non ordine, come fossero chiuse in una «ragnatela», ad introdurre concetti e definizioni, forse più propriamente suggestioni e talvolta anche provocazioni; prima ancora, alle pagine 8-18, Di archivio e altre parole, una nota introduttiva di Federico Valacchi, l’autore, e una sorta di ode all’archivio ad aprire il testo; poi, qua e là, alcuni disegni in bianco e nero.
«Originale tentativo di comunicazione dell’archivistica fuori da canoni consueti […] racconto di uno stato d’animo o, meglio, di tanti stati d’animo quanti sono i cuori che battono in seno a questa disciplina»: così è scritto nella quarta di copertina. La «personale ontologia» di Federico Valacchi, come ci dice lui stesso.
Tutto parte dall’esigenza di «destrutturare ciò che è sempre stato struttura allo stato puro», dalla crisi della comunicazione archivistica, dalla necessità di portare gli archivi nella realtà «lontani dai tecnicismi degli standard e dalle analisi capziose dei campi dei sistemi informativi» e di praticare l’«archivistica attiva», quella che ricorre anche in un profilo facebook e in un blog e che vuole «urlare in faccia al mondo» la consapevolezza dell’archivista che riordina le carte e i bit.
Quali sono, dunque, le duecentoventi parole di Federico Valacchi e i suoi concetti? La s batte tutte le altre lettere, ne ha ventisei: c’è il terribile scarto, ci sono la segnatura, la serie e la sottoserie, lo scaffale, la scatola e lo scatolone, la sedimentazione, lo standard e i sistemi informativi archivistici, l’aggettivo semantico, ma anche i sensi, il sesso, il silenzio, il simbolo, la simulazione, il sussurro, e qualche altra ancora. Poi, a volerne citare, in ordine sparso, solo alcune, le più seducenti per i concetti evocati: la descrizione, quella «danza suggestiva di soggetti produttori maldestri e obliqui, di conservazioni misteriose, di atti finali non ancora conclusi»; le vibrazioni, della carta che ci parla; l’amore, che pervade l’archivista e che contempla anche la gelosia documentaria; l’utente, «l’animale mitologico, l’unicorno studioso», colui che sta dall’altra parte, che deve utilizzare tutto quello che, con grandi sforzi, produciamo per lui, i nostri inventari, i nostri sistemi, le nostre descrizioni, che forse non ci comprende o che, invece, sa anche comprendere quello che cerchiamo di trasmettergli; l’inventario, con la sua originale definizione: «racconta ciò che riesce a vedere e genera suggestioni su ciò che si potrebbe scoprire»; il frondoso albero «rovesciato con le radici al posto delle foglie», «totem, anzi tabù»; le relazioni, cioè quell’insieme di legami esistenti, di connessioni possibili, di intrecci inevitabili, di nessi talvolta eccessivi ed esagerati, che l’archivista ricerca e attiva; l’interoperabilità, quelle «macchine che producono archivi» «che sono buone amiche», «navi spaziali che solcano le galassie muggenti dei dati». E ancora, alcune parole che stanno bene in coppia: orgoglio e pregiudizio - per onorare Jane Austen - quell’orgoglio che deve appartenere all’archivista a fianco al pregiudizio dei più nei confronti della nostra professione, dettato, troppo spesso, dalla mancanza di conoscenza; accanimento e narcisismo (alias «malattia infantile dell’archivismo»), le due parole con le quali l’autore strapazza gli archivisti per la loro degenerazione descrittiva e per il piacere che provano nel farlo; lentezza e velocità, quel mix che occorre per essere dei bravi specialisti del settore, in modo che lentamente si rievochi il passato e velocemente ci si adatti al futuro.
Sono parole non necessariamente dell’«archivistichese», non necessariamente appartenenti al «linguaggio di dominio» e con esse Federico Valacchi gioca e si diverte per svelarci, in modo assolutamente soggettivo, come lui stesso dice, gli «arcani archivistici», nell’ottica di renderli «intellegibili» a quella «opinione pubblica» che dovrebbe dialogare con gli archivi e che è, a sua volta, un oggetto imperscrutabile da parte degli archivisti.
C’è anche la nostra solitudine, che «si manifesta con sguardi persi nel vuoto di un deposito, apatia sociale e, nei casi più gravi, visioni dei lontani burocrati che produssero le carte». E c’è il tradizionale ordinamento, reso attraverso una immagine quasi poetica: «riordinare un archivio è evocare gli spiriti di coloro che lo crearono e farseli amici mansueti».
Come decisamente originale, un po’ anticonformista e forse anche leggermente dissacrante, è il concetto (di archivio): «Un complesso vitale di documenti prodotti da attività umane e abbracciati gli uni agli altri. Un archivio è la forza chiara del diritto, l’urlo della trasparenza, il baluardo contro l’oppressione del pensiero. E poi è sogno, immaginazione, retaggio vitale di mondi circostanti spalancati sullo spazio e sul tempo. Memoria, senso di sé, identità. La storia ascolta i sussurri e le grida degli archivi per inventare il passato con cui il presente nutre il futuro. Archivio è una parola d’amore. Per la vita». Decisamente originale, un po’ anticonformista e forse anche leggermente dissacrante è vedere i documenti abbracciati gli uni agli altri a ricordarci il vincolo archivistico.
Federico Valacchi scrive che la verità degli archivi «non esiste in sé, è figlia di interpretazioni»: tutto il lavoro dell’archivista è figlio di interpretazioni, di punti di vista, anche di manipolazioni, che ci portano a fare e disfare strutture, a fare e disfare informazioni, consapevoli che, alla fine del nostro fare e disfare, potremmo fare e disfare ancora, all’infinito. E qui sta il bello del nostro lavoro: tra la polvere e il profumo di carta e di inchiostro, ma anche nei back office dei sistemi, siamo in realtà quegli «abili registi», «capaci di imprimere al film tempi, trama e ritmo».
Insomma, un libro da tenere sul comodino, da rileggere ogni tanto, aprendo una pagina a caso e riflettendo e sognando sulla nostra professione.